Per orientarsi nelle difficoltà legate all’essere donna oggi può essere utile ascoltare una conferenza, leggere un articolo, vedere un film, partecipare a un dibattito.
Una psicoterapia inizia spesso quando un soggetto sperimenta una perdita di controllo: comportamenti o pensieri, che siano improvvisi o ripetitivi, ritornano come incomprensibili e sconcertanti. Alle volte un cambiamento nella condotta del proprio compagno o dei propri figli o di un’amica li rende enigmatici e si avverte un sentimento di perdita di padronanza di qualcosa che sembrava scontato. All’inizio dunque c’è un sentimento di turbamento: si sta male, anche se alle volte non si riesce a descrivere come ci si senta, oppure si individua la fonte pulsante del disagio tra le pieghe della quotidianità: Cosa mi succede? Cosa succede? Un senso di smarrimento e sconforto invade il sentimento della vita, non si sa il perché di tutto questo e tanto meno cosa poter fare.
Ed ecco che ci si rivolge ad uno psicoterapeuta perché si crede detenga un sapere particolare sulla sofferenza psichica; lo psicoterapeuta non è qualcuno che fa parte della serie degli affetti. Piuttosto si tratta di un altro che si presenta in posizione terza tra un soggetto e la sua sofferenza e capace di maneggiarla e risolverla. Questa credenza si chiama transfert ed è il propulsore inaugurale di un percorso. Una cura inizia e prosegue solo nel momento in cui un soggetto sceglie di credere e fidarsi.
In tre Tempi. C’è un primo tempo che è la fase preliminare. Si tratta dell’incontro con uno psicoterapeuta e questo apre già al nuovo: la contingenza di questo incontro ha un effetto sulla parola di chi si presenta all’appuntamento per parlare della sua sofferenza.
Qual è il nuovo che porta un terapeuta con la sua presenza? Il suo sapere che mette in campo nella modalità di chiedere: l’invito a dirne di più di un determinato frangente e non di un altro, oppure la richiesta inaspettata di precisare una parola, proprio quella che apparirebbe più scontata o banale. E’ per il tramite delle sue domande che uno psicoterapeuta permette di far emergere quei punti nevralgici del discorso che non sono uguali al discorso di nessun’altra!
In questa faste le domande sono molto più importanti delle risposte. Le domande mirano a estrarre i gangli antivitali attorno a cui si costruisce la sofferenza.
All’inizio un terapeuta parla domandando: indirizza il discorso, offre spunti di riflessione; fin dalle prime battute è al lavoro per far nascere un discorso che vada al di là di quanto un soggetto pensava di dire e accompagna a che si apra un modo nuovo e singolare di vedere l’impasse lamentata.
In un secondo tempo il terapeuta sostiene il soggetto nello scoprire fino a quale punto è tanto incastrato quanto implicato nelle maglie della sofferenza di cui si vuole sbarazzare. Siamo al cuore dell’orientamento teorico di Alia, un orientamento di tipo analitico che pone al centro della cura la ricostruzione del rapporto che ciascun soggetto ha costruito con il suo Altro significativo. Uno stile di relazione che si condensa attorno ad una logica precisa da cui ciascun soggetto preleva, quotidianamente, il senso da attribuire a tutti gli eventi nei tempi a venire e che costituisce il motore delle sue vicende umane, rendendole impossibili o insopportabili.
Poi arriva il terzo tempo: il momento di concludere. Momento tanto più fecondo quanto più si sarà investito il proprio tempo per comprendere quanto è emerso. Ogni soggetto conclude a modo proprio: perché l’impasse si è risolta; oppure perché ha trovato un desiderio che lo accompagna in maniera soddisfacente nella vita.
Perché la sofferenza psichica va riconosciuta solo quando è legata ai grandi eventi: traumi, lutti importanti, perdite. La sofferenza c’è anche qualora non si capisca da dove viene. Di conseguenza ha diritto di essere ascoltata e lasciata alle spalle.
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