Per orientarsi nelle difficoltà legate all’essere donna oggi può essere utile ascoltare una conferenza, leggere un articolo, vedere un film, partecipare a un dibattito.
Intervista a Maria Drakopoulou, membro del comitato scientifico di Alia.
Maria Drakopoulou è giurista, Full Professor alla University of Kent (Gran Bretagna), direttore del Centre for Critical Thought. Esperta di teoria femminista, giurisprudenza femminista, filosofia del diritto.
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M.D.: Il discorso giuridico femminista, se vogliamo definirlo, consta di una serie di affermazioni di sapere in relazione alle donne e alla legge. Tradizionalmente queste affermazioni riguardavano il modo in cui la legge, la legislazione e la giurisprudenza incidono sulla vita quotidiana delle donne. Questo sarebbe uno dei contenuti del discorso giuridico femminista, direi quello dominante, almeno nei paesi anglofoni. Il secondo modo in cui si può pensare il discorso giuridico femminista (quello a cui io lavoro – ma lavoro anche al primo in realtà) è quello di vedere la legge come corpo di conoscenze e cercare di sviluppare una critica della legge in quanto tale, ovvero in che modo i caratteri e le pratiche della legge possono rappresentare un’ideologia androcentrica dominante.
Parlando in senso lato, questi sono i contenuti principali.
Infine, negli anni recenti se ne sta sviluppando un terzo, che si concentra su come la legge parla delle donne. In questo senso la legge è vista dalle femministe come processo di soggettivazione: si guarda come il soggetto femminile è visto nel contesto del discorso legale. Il discorso giuridico femminista guarda al discorso giuridico come processo di soggettivazione e lo esamina criticamente. Queste tre vie probabilmente coprono tutto ciò di cui si tratta nel discorso giuridico femminista.
M.D.: È vero che molte legislazioni sono cambiate; innanzitutto quelle nazionali in Gran Bretagna, Francia, Italia, Grecia… penso per esempio alle leggi che sono state varate sulla famiglia, sull’aborto, sulla violenza sessuale. Questo ha avuto un certo impatto anche sulla legislazione europea. Ho lavorato molto per questa politica volta sollecitare riforme legali in favore delle donne, in direzione di un’uguaglianza formale. Ma ci sono state molte critiche su concetti come l’uguaglianza e l’uguaglianza formale… sono state introdotte nuove definizioni di differenza, che sono anche state adottate a livello di EU.
Credo ci sia una spaccatura importante in relazione a queste politiche. Da un lato, ci sono femministe che continuano a considerare importante questo tipo di politica, per avere più donne nei Parlamenti e nelle istituzioni. Per esempio in Germania hanno introdotto le quote in Parlamento, tot uomini e tot donne.
Dall’altro lato, ci sono femministe che criticano queste condizioni perché hanno creato una certa élite femminista molto vicina ai governi o alle istituzioni europee, che cammina nei corridoi del potere con gli uomini e non è molto interessata ai problemi reali che il femminismo prende in considerazione in relazione alla legge in altre aree. Per definire queste femministe che lavorano a stretto contatto con gli Stati e le istituzioni europee è stato coniato il termine “femminismo di Stato”.
C’è poi un femminismo che rimane più vicino ai movimenti femministi di base e – in termini accademici – alla critica della legge come corpo di conoscenze, come ho detto prima, o agli specifici effetti che le legislazioni hanno sulla vita delle donne. È stato spesso rilevato che le donne che lavorano a livello delle istituzioni europee sono altrettanto potenti degli uomini e sono interessate più alle politiche dell’istituzione che a quelle delle donne.
Non credo che ci siano posizioni giuste o sbagliate. Ci sono dibattiti diversi su come occuparsi delle istituzioni a livello europeo e della ricerca a livello accademico.
M.D.: Questo è uno dei problemi di questo approccio. Per esempio se pensiamo alle leggi per l’uguaglianza di retribuzione, l’idea è che avere la stessa paga degli uomini è ovviamente cosa buona per le donne, ovviamente, se poi è proprio così non si può provare. Per esempio qualche anno fa in Gran Bretagna ci fu il caso di un marito condannato per le violenze sulla moglie. Fu preso come emblema di vittoria delle donne perché quelli che erano i “diritti” del marito sono diventati punibili. Sicché ci sono certi effetti che sono considerati benefici per le donne: se possono denunciare i mariti violenti è una buona cosa, se possono fare ricorso per promuovere la loro eguaglianza è buona cosa. Ovviamente sono diritti molto generali e non sono garantiti in tempi di crisi economica come questa.
Poi, per esempio, osserviamo che le leggi sull’aborto si restringono sempre più via via che la tecnologia si sviluppa e l’embrione può vivere fuori dall’utero.
Ci sono momenti storici in cui piccole riforme possono dare effetti positivi e momenti in cui non è così. Ma il presupposto generale è che più donne giudici abbiamo, più donne abbiamo nei parlamenti, nelle istituzioni europee – che si suppone rappresentino gli interessi delle donne – e meglio è. A mio avviso è semplicistico pensare che se ci sono più donne queste penseranno in modo femminista, perché non accade così. Per questa ragione è sorta la critica di quello che è stato chiamato “femminismo di Stato”. Queste donne agiscono in nome delle donne ma non c’è alcuna concreta evidenza che sia realmente così. Ci si può giustamente chiedere se e come la loro azione migliora la vita delle donne; tuttavia per molte giuriste femministe questo è il solo modo in cui possono impegnarsi nel campo della legge. Suppongo che questo abbia a che fare con le radici del femminismo. Originariamente quando il femminismo era un movimento, negli anni sessanta, l’obiettivo era cambiare la società, sicché la legge è sempre stata vista come un mezzo per cambiare la società: cambiare la legge per cambiare la società e per cambiare in meglio le cose che riguardano le donne. Questo può avvenire su questioni molto specifiche: il lavoro, la famiglia, le retribuzioni.
M.D.: Un presupposto della teoria legale femminista è questo: le donne domandano cose e il lavoro delle giuriste è quello di mettere in linguaggio legale queste richieste e chiedere di cambiare le leggi per ottenere quello che le donne vogliono. In questo contesto quello che accade è che si intende la soggettività femminile in quanto una donna – “la donna” – domanda qualcosa e la giurista femminista in nome di questa domanda esercita una critica della legge. Questo tipo di approccio assume che tutte le donne sono uguali. E questo è uno dei problemi che negli anni 80 e 90 fu molto presente nel dibattito tra le giuriste femministe anglosassoni, in Gran Bretagna, USA, Canada. La critica a questo approccio, a questo modo di intendere la femminilità, venne in particolare da donne di diversa classe sociale, colore, religione, che fecero presente che questo soggetto era in realtà una donna bianca anglosassone di classe media, il soggetto colonialista. Grazie alla critica della validità di quest’idea che le donne siano tutte uguali siamo passate alla valorizzazione delle differenze. Le donne sono differenti. Questo rende il problema per le giuriste molto difficile perché la legge riconosce solo un soggetto unitario al di sotto delle diverse soggettività. Così nel Diritto questo primo approccio rimane dominante. Negli USA hanno poi sviluppato un altro approccio alla soggettività che chiamano Intersezionalità. Esso assume che il soggetto davanti alla legge possa essere allo stesso tempo nero, donna, disabile, gay e la sua identità crea diverse forme di oppressione che sono da prendere in conto dal punto di vista del Diritto. In pratica, questo approccio non sta veramente funzionando. Nella prospettiva dei lavori di Foucault, anche la soggettività femmile può essere vista come il risultato di processi di soggettivazione performati dalla legge. Quando la legge parla delle donne al tempo stesso crea specifiche posizioni della soggettività riguardo alle donne e credo che questa sia la più potente e interessante critica della legge che possiamo produrre. Perché si vede in che modo la legge include, esclude, indebolisce e quali posizioni crea che poi le donne occupano. E ci sono molti lavori di questo tipo.
M.D.: Sono completamente d’accordo, è per questo che nei miei scritti non prendo mai questa posizione. In più, questa visione crea una certa classe di esperte che non discutono affatto con le donne, questo accade specialmente a livello dell’Unione Europea . Sono donne che si propongono come quelle che sanno meglio cosa è bene per le donne… quali leggi, quali cambiamenti e quali riforme bisogna introdurre.
Sono le “specialiste democratiche della legge”, solo che non si sa mai come arrivino alle decisioni.
Alia: L’Unione Europea attiva dei bandi attraverso le Regioni per finanziare le associazioni che promuovono la parità. L’erogazione dei finanziamenti è vincolata ad alcuni principi-guida, per esempio a promuovere l’introduzione delle donne al lavoro – l’Italia è, tra i paesi europei, uno di quelli in cui il tasso di donne lavoratrici rispetto agli uomini è più basso – È ritenuto un miglioramento nella vita delle donne indurle a lavorare. Facendole entrare in un mercato del lavoro che sappiamo essere assai penalizzante per la vita delle donne, per le sue regole e per le sue disparità di retribuzione. Alia ha discusso al suo interno se partecipare o no a questi bandi di finanziamento e ha deciso di no. Troviamo che questi bandi siano la via con cui il governo europeo mette in atto la sua biopolitica – come l’ha individuata Foucault – cioè la gestione e l’indirizzo della soggettività femminile secondo le esigenze dello stato e del mercato.
Per una donna a volte è meglio non lavorare fuori casa e noi pensiamo che si debba rispettare la scelta di ciascuna.
M.D.: A mio modo di vedere queste prescrizioni servono a migliorare le statistiche e non c’è alcun progetto di parità. Ora, c’è nell’UE l’idea che il mondo occidentale fa avanzare la parità, promuove l’impiego femminile, l’uguaglianza nell’alimentazione, etc.. C’è una quantità di programmi, ma molte di queste politiche sono messe in atto per giustificare una certa immagine di promotori dell’uguaglianza e dei diritti delle donne, però totalmente in astratto, senza alcuna attenzione o interesse a ciò che veramente vogliono le donne. Donne diverse in momenti diversi della loro vita vogliono cose diverse. Questo tipo di evocazioni è una delle ragioni impiegate dalle potenze occidentali per attaccare l’Afghanistan. Al fine di aiutare le donne, educare le donne, portarle al progresso come le donne occidentali. E questo è molto pericoloso, perché usano le donne e il nome delle donne per portare avanti le loro politiche.
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