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Terza età e cervello

Le risorse del cervello: PLASTICITA’ NEURONALE E PAROLA

Intervista alla Dott. Marcella Bellini, specialista dei problemi psichici della terza età –  membro dello staff di Alia

Alia: dott. Bellini lei frequenta regolarmente i convegni sulla terza età in cui si confrontano gli specialisti dei vari rami della medicina e della psicologia per scambiarsi le conoscenze più avanzate sui processi di invecchiamento e sulle risorse per contrastarli. Sappiamo che i processi di invecchiamento cerebrale cominciano molto presto, già dopo i venti anni. In che condizioni arriva il nostro cervello alla terza età?

Dott. Bellini: A livello fisiologico è un dato oggettivo constatare che il passare del tempo determina dei cambiamenti che possono riguardare, a differente titolo, tutto il corpo. La senescenza degli organi, tra i quali il cervello, fa parte di un’unica area delle malattie che riguardano la terza età e che vengono chiamate malattie degenerative. Per il suo funzionamento il cervello necessita di un maggior consumo di ossigeno, rispetto ad altri organi, e quindi è maggiormente coinvolto nei processi ossidativi che causano il deperimento neuronale.

E’ relativamente recente la scoperta scientifica che la neurogenesi (cioè la capacità di rinnovarsi) è una proprietà del cervello adulto. Agli inizi degli anni ’60 alcuni ricercatori hanno verificato in laboratorio che nel cervello c’erano cellule proliferanti, anche se all’epoca non è stato possibile capire che cellule fossero. Solo trent’anni dopo, grazie all’utilizzo di tecnologie più sofisticate è stato possibile isolare queste cellule, metterle in coltura, osservare il loro comportamento e constatare che alcune di queste diventavano dei veri e propri neuroni. Successivamente è stato possibile determinare che una delle regioni cerebrali più attive in riferimento alla neurogenesi è quella dell’ippocampo, zona deputata all’apprendimento.

Alia: ci sta dicendo che è possibile influire sulla fisiologia cerebrale attraverso l’esercizio dell’apprendimento? Questo vorrebbe dire che nella terza età non diminuiscono le attività intellettuali perché il cervello perde le sue capacità, ma esattamente il contrario: il cervello si deteriora perché vengono meno gli interessi e la passione della conoscenza. Ci sono altri dati che possono spiegarci meglio come funziona questo meccanismo?

Dott. Bellini: Un altro importante concetto, che solo in tempi recenti è stato applicato alla biologia, è quello di plasticità e si riferisce alla capacità di modificazione dei tessuti organici come conseguenza dell’esposizione a determinate esperienze. Risalgono a più di due secoli fa le prime osservazioni pionieristiche, tra le quali quelle di Darwin, che mettevano in relazione il tessuto cerebrale con il fenomeno dell’apprendimento confrontando coppie di animali gemelli, cani e vari tipi di uccelli. Già all’epoca si constatò che l’animale sottoposto ad un particolare addestramento aveva delle circonvoluzioni cerebrali maggiormente sviluppate rispetto al gemello non sottoposto al programma di educazione. Oggi è ormai ampiamente riconosciuto che la corteccia cerebrale è una struttura estremamente dinamica, e che la sua continua riorganizzazione è da mettere in relazione con le esperienze compiute.

Alia: come tengono conto gli specialisti addetti alla cura, psichiatri e psicoterapeuti, di queste scoperte?

Dott. Bellini: Agli inizi del Novecento, uno psichiatra italiano, Ernesto Lugaro, pubblicò un trattato di psichiatria nel quale fenomeni come l’apprendimento e la compensazione dei deficit funzionali sono attribuiti alla plasticità neuronale, intesa da Lugaro in un’ accezione molto simile a quella moderna in quanto aveva intuito che la plasticità è da mettere in relazione non solo alla modificabilità morfologica del neurone ma anche ai processi chimici coinvolti nella trasmissione sinaptica.

A partire dagli anni ’70 del secolo scorso vengono compiute sempre più ricerche che confermano non solo i dati macroscopici sopra indicati, ma mettono anche a disposizione dati microanatomici che dimostrano che i neuroni cerebrali dei ratti esposti ad un ambiente arricchito (cioè che vivono in gabbie ricche di stimoli e che per nutrirsi devono percorrere labirinti o risolvere svariati problemi) risultano maggiormente interconnessi grazie ad un aumento della densità della loro ramificazione dendritica e che l’addestramento altera i processi elettrochimici migliorando l’efficacia della trasmissione sinaptica. Le ricerche e gli studi fino ad oggi condotti permettono di considerare il sistema nervoso come un tessuto estremamente plastico suscettibile di rimodellamento, sia in conseguenza di determinate esperienze, sia in seguito a lesioni.

A partire dalla fine degli anni ’70, inoltre, sono stati pubblicati molti lavori grazie ai quali è stato possibile constatare che le aree o mappe, con le quali si suddivideva in modo rigido la corteccia cerebrale, sono in realtà molto dinamiche, variano in ampiezza e modificano continuamente i propri confini a seconda delle esperienze. La cosa più importante è che questo processo ha luogo non solo nell’organismo in via di sviluppo, ma anche nella vita adulta.

 Neuroscienze e terapie basate sulla parola viaggiano su binari paralleli e nella maggior parte dei casi gli esponenti di entrambi i campi di sapere si ignorano sostenendo l’irriducibile dicotomia tra mente e cervello. Pur riconoscendo che al momento nessun paradigma è in grado di spiegare l’interconnessione tra biologico e mentale, ritengo importante aprire un dialogo che permetta una reciproca interrogazione.

Se all’interno delle neuroscienze l’approccio epigenetico si è sviluppato partendo dalla scoperta che l’esperienza produce cambiamenti fisici nei neuroni, oggi non si può più escludere che la parola possa modificare lo stato neuronale.

 


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